top of page

Una tela senza ragno

Aggiornamento: 21 gen 2019

Dai gruppi WhatsApp alla co-produzione dei servizi sociali. Quando i cittadini non fanno solo domande ma danno risposte


Il modo con cui affrontiamo la quotidianità sta cambiando in modo radicale. Un cambiamento che mette in discussione la relazione con le istituzioni e con le forme di partecipazione “tradizionali”. Sono processi di auto-organizzazione che stanno riconfigurando sia il meccanismo di costruzione (o ricostruzione) dei luoghi che abitiamo sia i modelli delle relazioni sociali e dei servizi locali. Sono, per definizione, situazioni ambigue in cui soggetti diversi, con intenzioni e interessi differenti, interagiscono e possono anche entrare in conflitto tra di loro. Ciò diventa ancora più complicato in una condizione in cui il ruolo delle istituzioni sta cambiando e le dinamiche socio-economiche hanno un impatto diretto sullo stato sociale. Una situazione in cui i player tradizionali , pubblico, terzo settore, rappresentanze sindacali sbandano alla ricerca di nuove identità. Si creano reti che apparente non sono coordinate se non in modo ugualitario dai partecipanti stessi. Manca il dominus. Manca il ragno che tesse la tela. Non è il caso di scomodare, almeno per ora, la “Teoria della complessità” che descrive l'auto-organizzazione come uno dei misteri più affascinanti della scienza, dove i comportamenti complessi emergono dal basso, senza imposizioni esterne o un centro decisionale preposto; prendiamola più bassa, molto più bassa.


Se una chat salva una vita

Partiamo da WhatsApp. Si, proprio lui: lo strumento di messaggistica istantanea che vede ogni mese 1.5 miliardi di utenti attivi in tutto il mondo e che risulta essere l'accrocco social più utilizzato in Italia. Cosa sono i gruppi di WhatsApp se non modelli di auto-organizzazione che rispondono direttamente ad un determinato bisogno? Viene pareggiato il dislivello tra l’utente e l’istituzione; vengono messe in comune competenze, sensibilità, informazioni; si creano comunità autoregolanti in cui la leadership è trasversale o in qualche modo condivisa. Prendiamo ad esempio le famigerate chat tra i genitori degli alunni della stessa classe che si “confrontano” su compiti, orari, libri di testo, carenze degli istituti… se lasciamo perdere alcune degenerazioni (i commenti sulla messa in piega della professoressa di inglese) non si che notare che rispondono all’esigenza di coinvolgere attivamente ed in tempo reale le famiglie nella vita di un’istituzione fondamentale come la scuola. Altro fenomeno è quello delle cosiddette “sentinelle dalla spunta blu” che, grazie alla diffusione degli smartphone ha fatto evolvere il "controllo di vicinato" in vere e proprie comunità iperlocali di allerta, segnalazione e osservazione di possibili reati. In Toscana questo fenomeno è in continua espansione. A Putignano - come racconta il Tirreno - l'esperienza della chat-anti ladri ha portato dei risultati: dal 2015 al 2016 i reati sono passati da 212 a 146, mentre i furti in abitazione sono scesi da 52 a 29. In altri comuni della regione oltre ai furti, la chat funziona anche per segnalare chi abbandona i rifiuti per strada. Le chat collettive su WhatsApp tra vicini di casa (o di quartiere) sono state istituzionalizzate a Milano. Quarantuno sindaci della Città Metropolitana hanno sottoscritto un protocollo con il Prefetto per fare partire un progetto sulla cosiddetta "vigilanza di quartiere", ovvero quel sentirsi parte di una sola comunità connettendo le istituzioni con chi vive in una determinata zona. L'obiettivo è quello di aumentare la sicurezza scongiurando la "giustizia fai da te". Più semplicemente, i cittadini scambieranno informazioni tra loro come in molti casi già fanno adesso, e in più segnaleranno alle forze dell'ordine e alle amministrazioni comunali situazione di disagio e fragilità sociale a cui porre rimedio. WhatsApp però a volte può veramente salvare la vita delle persone; in Somalia sta accadendo proprio questo. Per far fronte alla drammatica crisi umanitaria che sta colpendo il paese, questa tecnologia e la cultura tribale locale si sono fuse in una macchina di assistenza per tutelare le famiglie più povere e far sì che nessuno sia dimenticato. Sul gruppo, composto dai membri di alcuni clan, ognuno pubblica una cifra che è disposto a donare a favore di una famiglia specifica o persona in stato di bisogno. Ogni famiglia vive con circa 60 dollari al mese ed in base a questo standard ogni membro del gruppo decide quanto denaro può mettere a disposizione per andare a coprire le spese di altre persone. Dopodiché i soldi vengono depositati in un conto bancario dedicato, e viene richiesto di postare sul gruppo una foto che certifichi il deposito. A questo punto un comitato autorizzato a farlo dai membri del gruppo, preleva i soldi depositati e si occupa di acquistare i beni di prima necessità e portarli alla famiglia beneficiaria: riso, latte in polvere e acqua potabile.


Auto-organizzazione per l’inclusione

Una delle sfide più grandi per i processi in questione è sicuramente quella di opporsi ai montanti fenomeni di esclusione , dove la marginalizzazione delle realtà non riconosciute è crescente. Esemplare è il caso del campo per rifugiati Palestinesi e Siriani a Beirut in Libano, dove è il calcio ad essere mezzo di innovazione sociale e di integrazione. Si tratta di campi extraterritoriali all’interno dello Stato Libanese, controllati militarmente e quindi senza possibilità per i rifugiati di entrare in contatto con la città. L’occupazione di alcuni spazi abbandonati all’interno del campo ha dato vita a un campo da calcio e ad una squadra di calcio di rifugiati (Yarmouk Team) che partecipa a tornei nazionali, permettendo così il reinserimento del campo rifugiati all’interno del circuito cittadino e la ridefinizione della mappa della città. Ciò, inoltre, contribuisce alla creazione di un forte senso di appartenenza tra gli abitanti del campo. Tornando in Italia. In molte occasioni è proprio al di fuori del contesto istituzionale che si riesce a dare vita a progetti innovativi in grado di rispondere alle esigenze della città e di ridare vita a luoghi abbandonati, come nel caso della Cavallerizza Reale a Torino, dove partendo da occupazioni “abusive” si è fatto ricorso all’arte come strumento per proteggere e legittimare il riuso degli spazi. Nel maggio 2014 un gruppo di cittadini denominatosi poi Assemblea Cavallerizza 14:45 (dall’orologio fermo sulla facciata) ha riaperto questo luogo quasi sconosciuto ai torinesi alla cittadinanza per poterlo godere e conoscere. La Cavallerizza Reale, insieme a altre 22 residenze è iscritta tra i beni UNESCO dal 1997 è un bene che in seguito al suo abbandono avrebbe rischiato, e per certi versi rischia ancora di smettere la funzione pubblica ma tale deve rimanere affinché non solo i cittadini di oggi, ma anche le generazioni di domani, possano continuare a goderne. Una domenica al mese ha luogo l’Assemblea Cavallerizza 14:45 (AC14:45), un’assemblea pubblica aperta, luogo d’incontro e confronto tra cittadini, lavoratrici e lavoratori dello spettacolo e della cultura, studenti e associazioni nata e cresciuta con l’obiettivo di tutelare la Cavallerizza.


I cittadini co-produttori del welfare locale

Una sfida che interroga anche i soggetti del Terzo Settore. La domanda di oggi è come dare cittadinanza alle istanze che arrivano direttamente dai singoli o dai gruppi che decidono di non utilizzare forme istituite: come questi soggetti agiscono o possono agire in modo sussidiario? Da sempre il mondo del volontariato e del Terzo settore sono stati pionieri nella lettura di problemi e bisogni sociali, diventando anticipatori di idee e di visioni che poi il settore pubblico ha istituzionalizzato e trasformato in azioni concrete per individui e società. Un esempio calzante sono le Social Street. L’idea di “Social Street” ha origine dall'esperienza, iniziata nel Settembre 2013, del gruppo facebook “Residenti in Via Fondazza – Bologna”, gruppo nato dalla constatazione dell’impoverimento generale dei rapporti sociali. Tale impoverimento ha comportato senso di solitudine e perdita del senso di appartenenza con conseguente degrado urbano e mancanza di controllo sociale del territorio. Scopo di Social Street è quello di favorire le pratiche di buon vicinato, socializzare con i vicini della propria strada di residenza al fine di instaurare un legame, condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, portare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale, Il tutto gira intorno a semplici parole chiave: Territorialità, Gratuità, Inclusione. In pochi anni il fenomeno si è diffuso in tutta Italia, a Torino sono 15 i progetti di Social Street. La necessità di ridefinire gli interventi pubblici nell’ambito dei sistemi di protezione sociale è diventata un’emergenza di primaria importanza da diversi anni, in particolar modo all'interno di una crisi globale che ha intaccato sia il piano economico-finanziario che quello sociale dell’Europa. Si tratta delle combinazione di due fattori: la difficoltà in aumento nel dare risposte attraverso erogazioni monetarie centralizzate, che ha fatto emergere in pochi anni l’inadeguatezza dei sistemi di welfare come quello italiano (e più in generale dell’Europa continentale), incentrati maggiormente su erogazioni monetarie (pensioni, sussidi vari, redditi di cittadinanza, ecc.) che sull'offerta di servizi; dall'altro, la crescente differenziazione dei bisogni (a tutti i livelli: per genere, età, territori, ecc.) che ha reso via via sempre più inefficaci le risposte standard. Una situazione tale che deve affrontata con risposte altamente innovative. Una di queste è il coinvolgimento diretto dei cittadini utenti nel ciclo di produzione dei servizi.

Si pensi, ad esempio, alle mutue sanitarie integrative e al ruolo di “collettori di domanda” da loro assunto soprattutto in questi ultimi anni: esse possono essere interpretate quali strumenti di sussidiarietà sociale e sanitaria, aperti e volontari, che aggregano e rafforzano la domanda, raccolgono risorse volontariamente conferite e le ripartiscono in funzione dei bisogni espressi dalla base associativa, attraverso un’azione di responsabilizzazione dei cittadini-soci nei confronti dei modi, dei mezzi e dei costi della soddisfazione dei propri bisogni sanitari e sociali. Nella stessa logica, la cooperazione sociale può organizzarsi per incontrare la domanda di assistenza dei cittadini in maniera diretta e non mediata esclusivamente dall'ente locale, attraverso il dialogo e la collaborazione con altre organizzazioni della società civile ed assumere così un ruolo partecipativo. Il cambiamento in atto nel sistema di welfare passa dunque da un ripensamento dell’agire della pluralità soggetti che sono chiamati a co-produrre servizi di pubblica utilità per le comunità, mettendo insieme mezzi e fini della loro azione, ovvero co-operando per la costruzione di un nuovo welfare.


Alessandro Prandi

Pubblicato su Solidea ottobre 2018


Riferimenti

AICON - Maggio 2014 - “Co-produzione. Ridisegnare i servizi di welfare”

Vdossier - Dicembre 2016 - “Le sette virtù della co-progettazione”

ISTAT e Fondazione Ugo Bordoni - Giugno 2018 - “Internet@Italia 2018”

Comments


bottom of page