Il welfare state italiano si trova oggi soggetto a due grandi pressioni che condizionano l’efficacia delle sue azioni. Da un lato, i vincoli di bilancio introdotti per ridimensionare la spesa pubblica sono andati inevitabilmente a incidere sugli interventi a carattere sociale, determinando un calo della quantità e della qualità delle prestazioni di welfare. Dall’altro, la rapida trasformazione della struttura dei bisogni ha fatto emergere le crescenti difficoltà dell’attore pubblico nel dare risposta ai cosiddetti “nuovi rischi” (precarietà lavorativa, aumento dei bisogni di cura per anziani e non autosufficienza, conciliazione vita-lavoro) e alle nuove forme di povertà emergenti, come quella educativa e quella alimentare.
Di tutto questo si occupa il secondo rapporto sul Secondo Welfare presentato a Torino, presso la Sala Vivaldi della Biblioteca nazionale lo scorso 27 novembre; si tratta di un lavoro di ricerca, giunto alla sua seconda edizione, promosso dalla Fondazione Einaudi e curato da Franca Maino e Maurizio Ferrera che pone come oggetto della propria indagine tutto quel complesso di azioni di protezioni e di investimento sociale a finanziamento non esclusivamente pubblico forniti da attori economici e sociali collegati in reti dal forte ancoramento territoriale che vanno progressivamente affiancandosi al cosiddetto “primo welfare”. In quest’ambito è il settore non profit ad essere l’elemento centrale. Al termine del 2011 le organizzazioni non profit attive in Italia risultavano essere più di 300.000, il 28% in più rispetto al 2001, con una crescita del personale dipendente pari al 39,4%. Compresi i volontari, il settore coinvolge oltre 5,7 milioni di persone. Il totale delle entrate di bilancio delle istituzioni non profit è pari a 64 miliardi di euro (2014). Vi è stato un notevole consolidamento del secondo welfare nella sanità. Risultano operative ormai più di 100 società di mutuo soccorso che si occupano di prestazioni socio-sanitarie e sono circa un milione gli italiani che hanno oggi una copertura integrativa grazie all’iscrizione a una società di mutuo soccorso. Sono poi circa un milione e mezzo le famiglie direttamente coperte da una polizza malattia, a cui vanno aggiunti circa 3 milioni di soggetti aderenti a fondi integrativi convenzionati con una impresa assicuratrice. Pietra angolare di questo diverso modo di guidare alla protezione sociale è il cosiddetto welfare negoziale ossia quello previsto nei contratti di lavoro (nelle varie forme: aziendali, interaziendali, territoriali) che coinvolge ormai il 21,7% delle imprese italiane (il 31,3% se si considera anche la contrattazione individuale). Nell’ultimo biennio molte iniziative nate come esperimenti o progetti pilota si sono stabilizzate, i principali attori hanno confermato e in molti casi rafforzato il proprio impegno, il flusso di risorse non pubbliche si è fatto più regolare e affidabile. Iniziamo con qualche dato. Per quanto riguarda il sistema delle imprese, il segnale più evidente di consolidamento è la crescita del welfare aziendale. Complessivamente, questo nuovo tipo di contrattazione ha consentito ai lavoratori interessati di percepire incrementi del 15% rispetto al salario medio nazionale (del 19% nelle imprese che erogano premi di risultato). Per quanto riguarda i servizi offerti dal welfare aziendale, vi è stata un’espansione verso l’ambito della famiglia e delle politiche di conciliazione vita-lavoro. Se previdenza e sanità costituiscono ormai le basi di ogni piano di welfare strutturato, la novità è l’introduzione di misure di sostegno al reddito familiare e, soprattutto, di flessibilità oraria per garantire più tempo ai lavoratori con figli. Con riferimento alle imprese manifatturiere, dei servizi e del commercio, sempre l’Istat fornisce una mappatura delle pratiche di welfare aziendale e corporate social responsibility. Nel 2014 in cima alla graduatoria si collocano le iniziative sulla sicurezza e l’igiene dei luoghi di lavoro. Al secondo posto si trovano le attività di formazione professionale e di aggiornamento per i dipendenti. Seguono, rispettivamente al quart’ultimo e penultimo posto per frequenza, tutte le misure che hanno l’obiettivo di flessibilizzare l’orario e favorire la conciliazione fra i tempi di vita e di lavoro, oltre a quelle che garantiscono un’offerta di “servizi di prossimità” come asili nido, assistenza sociale, ricreazione e sostegno. Le misure di flessibilizzazione dell’orario si rivelano particolarmente diffuse nel comparto dei servizi (dove più del 50% delle imprese interpellate afferma di aver adottato misure di questo tipo, contro il 24,2% del commercio e il 36,2% della manifattura), che è anche il più attivo per quanto riguarda i servizi di prossimità (il 30,7% delle imprese di servizi afferma di aver messo in campo almeno una di queste azioni, contro il 17,6% delle imprese manifatturiere e appena il 4,2% di quelle attive nel commercio). I dati dell’Ocsel, l’Osservatorio sulla contrattazione di secondo livello della Cisl, mostrano poi che tra il 2012 e il 2013 gli accordi che trattano di asili nido e scuole d’infanzia sono cresciuti significativamente, passando dall’8 al 33%, così come le misure di sostegno al reddito: dal carrello della spesa (8%) ai rimborsi per spese scolastiche (17%), a una serie di altri servizi tra cui sono ricompresi cure termali, centri estivi e ricreativi, servizi alla persona, visite mediche gratuite e rimborsate (33%). In questo senso è particolarmente significativa la sezione che il Rapporto dedica all’approfondimento dei primi esiti del biennio di sperimentazione 2014-2016 delle Reti territoriali per la conciliazione della Regione Lombardia. L’attenzione è puntata sulla volontà dell’ente regionale di valorizzare la dimensione territoriale attraverso l’istituzione di alleanze locali, e sul nuovo sistema di governance territoriale articolato su tre livelli: quello regionale rappresentato dalla Regione stessa, quello intermedio costituito dalle singole Rtc con le Asl come ente capofila, e il terzo costituito dalle singole alleanze locali. Ampio spazio è dedicato all’esperienza di due delle Rtc più interessanti – Mantova e Bergamo – e ad alcune delle loro progettualità più innovative, facendo particolare riferimento a due aspetti di rilievo: da un lato, il rapporto tra imprese, reti locali e innovazione sociale e, dall’altro lato, tra voucher per servizi alla persona e misure di conciliazione.
I dati disponibili indicano che l’Italia sconta ancora una tradizionale debolezza nel settore delle politiche familiari, specialmente in riferimento ai servizi di conciliazione vita-lavoro. Emergono due importanti fronti di azione, a livello nazionale e locale: da un lato la cura dell’infanzia; dall’altro il tema della non autosufficienza. Per entrambi il livello di “socializzazione del rischio” è ancora troppo basso e la famiglia (e al suo interno soprattutto le donne) continua ad avere un ruolo di primo piano. I Piani sembrano dare molta enfasi alla tutela delle famiglie con minori mentre il tema della non autosufficienza è ancora poco presente. Per iniziare a ricomprendere il tema dell’invecchiamento all’interno dell’ambito della conciliazione vita-lavoro sarebbe utile favorire una riflessione a partire dai progetti per l’invecchiamento attivo, coinvolgendo chi è già impegnato su questo fronte e aprendo ancora di più le aziende al mondo degli anziani attraverso la sperimentazione di iniziative che le vedano direttamente coinvolte. Un secondo fronte riguarda l’integrazione dei Piani con la programmazione territoriale, come per esempio i Piani degli Orari e/o i Piani di Zona. Nell’attuazione dei Piani è certamente necessario investire tempo e risorse per fare sinergia tra i progetti delle alleanze, quanto già stabilito a livello locale e i soggetti che operano nel territorio: uno snodo strategico per evitare la proliferazione di microinterventi tra loro disorganici e scongiurare il rischio della duplicazione di iniziative, della frammentazione, e dello spreco delle già esigue risorse che ne conseguirebbe. In quest’ottica le alleanze locali devono assumere la valenza di una “palestra” dove sperimentare e sottoporre a validazione (con processi di monitoraggio) le modalità usate per fare sistema e lavorare in modo sinergico con quanto già in essere.
Per promuovere la crescita ulteriore del secondo welfare è necessario elaborare una strategia che rafforzi i suoi volani interni ed esterni. Fra i volani interni, di particolare importanza sono: l’espansione e l’articolazione degli strumenti di finanza sociale, che canalizzino risorse verso gli attori e le iniziative di secondo welfare; la messa a punto di canali e veicoli per l’estensione delle “reti” e la diffusione di conoscenze e buone pratiche all’interno di tutto il territorio nazionale. Fra i volani esterni, vengono individuate una serie di riforme che aprano spazi e incentivino le partnership fra pubblico, privato e terzo settore, da un lato, e facilitino lo sviluppo del welfare integrativo e assicurativo dall’altro lato: la Riforma del Terzo Settore, l’introduzione del voucher universale servizi alla persona, realizzazione di un fisco pro-welfare, introduzione del reddito minimo garantito, attuazione del Jobs Act per quanto riguarda le politiche dell’impiego e di conciliazione vita personale-lavoro.
Alessandro Prandi
Pubblicato sul numero di 2/2018 della rivista Solidea - Lavoro, Mutualismo e Comunità
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