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Carcere, farsi prossimo e abbattere le distanze

Quello della detenzione, forse più di altri, è un argomento che si alimenta in modo ossessivo di luoghi comuni. Luoghi comuni sostenuti da chi vuole solo buttare la polvere sotto il tappeto giudicando i “colpevoli” meno della polvere stessa. Spesso chi parla e scrive di carcere lo fa senza cognizione di causa e quindi con facilità e superficialità estrema.





Se l’affermazione dei diritti civili nel nostro Paese è faticosa in senso in generale, tutto diventa molto più complicato per le persone ristrette. Se ne esce soltanto se si pensa il Carcere non in modo settoriale: gli agenti di Polizia penitenziaria, il personale amministrativo, l’area trattamentale, i detenuti, gli spazi, i muri, ecc… Bisogna guardare al carcere come un unicum, al carcere come un Bene Comune. Un Bene di tutti, che interessa tutti: chi sta dentro e chi sta fuori; chi vive “il dentro” e chi vive “il fuori”. Al centro ci sono le persone. Le persone detenute, le persone che nel carcere ci lavorano, le persone che al carcere dedicano gratuitamente parte del loro tempo ed ovviamente gli spazi che queste persone frequentano.

La domanda è forse banale: perché non si fa? Il naufragio della Riforma del sistema penitenziario e le nuove norme che danno una visione del tutto “carcero-centrica” del problema non fanno altro che ingigantire questa domanda. Non che non ci sia provato negli ultimi anni ad affrontare una situazione che in certi casi è diventata insostenibile. Ogni giorno si fanno convegni in cui si parla e ci confronta. Tutto è da tempo profondamente noto. Allora perché non si fa? Perché non si affronta il sistema penitenziario in modo logico, pragmatico, in un’ottica progettuale? Perché si lascia che tutto rimanga governato dal caos emergenziale? Il sospetto sempre più forte è che una volta instradata la soluzione dei problemi, buona parte del gigantesco apparato politico, burocratico e mediatico che governa, amministra e racconta il sistema penitenziario dovrà guardali in faccia questi problemi e impegnarsi risolverli. Ed è abbastanza palese che non lo voglia fare. Che non lo voglia fare per indolenza, che non lo voglia fare per paura di inimicarsi l’opinione pubblica, che non lo voglia fare perché raccontare la favola del lupo cattivo paga sempre.


I numeri di una deriva

Allo scorso 31 maggio i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 60.476, al 31 dicembre 2018 erano 59.655, dodici mesi prima 57.608. Alla fine dello scorso maggio le persone ristrette erano quasi 10.000 in più dei 50.528 posti letto ufficialmente disponibili - cui si debbono sottrarre gli eventuali spazi momentaneamente in manutenzione - per un tasso di affollamento ufficiale che sfiora il 120%. Le donne 2.648 pari al 4,4% del totale. Il 33,5% è composto da detenuti stranieri, che in numero assoluto sono 20.227. Recentemente Il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede ha inviato al Parlamento “Relazione sull'attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti” che conferma, accanto al ritorno del sovraffollamento delle celle, il calo dei detenuti lavoranti. Non succedeva da almeno sette anni.

Sovraffollamento e meno lavoro, un accoppiata molto pericolosa. Anche perché, come si legge proprio nelle prime righe della Relazione "il lavoro è ritenuto dall'Ordinamento penitenziario l'elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato Costituzionale, che assegna alla pena una funzione rieducativa".


E invece, su questo fronte, il 2018 ha tutti dati negativi. Sia in numeri assoluti che percentuali. Lo scorso anno, infatti, i detenuti lavoranti sono stati 17.614, rispetto ai 18.405 de12017, il 4,29% in meno. Eppure nello stesso periodo i detenuti in carcere sono invece saliti da 57.608 a 59.655. Un aumento di presenze che non ha portato ad un aumento del lavoro. Così ne12018 la percentuale dei detenuti lavoranti rispetto al totale è stata del 29,52%, rispetto al 31,94% del 2017. Ed è il primo risultato negativo almeno dal 2012, quando i detenuti lavoranti erano solo il 21,01% (con una popolazione carceraria di 65.701 persone).

Nella relazione si prova a trovare una giustificazione ricordando che "nell'ottobre del 2017, si è provveduto ad adeguare le retribuzioni dei detenuti lavoranti, ferme dal 1994, ai rispettivi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, così come previsto dall'art. 22 dell'Ordinamento Penitenziario". Aggiungendo che "l'aumento medio delle retribuzioni, è stato di circa 1'80%, incidendo sui livelli di occupazione all'interno degli istituti penitenziari". Dunque l'aumento delle retribuzioni ha provocato un calo dei detenuti lavoranti? La classica coperta troppo corta? Eppure le assegnazioni sul capitolo delle retribuzioni per i detenuti lavoranti alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni sono cresciute molto, passando dai 50-60 milioni fino al 2016 ai 100 milioni del 2017, e anche lo scorso anno l'aumento non si è fermato, arrivando a 110 milioni. Ma è davvero solo una questione di fondi?

Se andiamo a leggere altri punti della Relazione - argomenta Antonio Maria Mira su Avvenire del 28 giugno - possiamo vedere che a calare sono tutti i dati. Così i detenuti dipendenti dell'Amministrazione penitenziaria in attività industriali (officine e laboratori interni al carcere), sono scesi da 655 a 637, interrompendo così anche per questa attività ‘specializzata’ il trend positivo degli ultimi sette anni.

Stesso discorso per i detenuti impegnati presso ‘colonie e tenimenti agricoli’, passati dai 420 del 2017 ai 375 del 2018. E il calo, purtroppo, ha riguardato anche l'importante settore del lavoro esterno al carcere, preziosa occasione di recupero e reintegrazione. A1 31 dicembre 2018 i detenuti alle dipendenze di datori di lavoro esterni erano 2.386 rispetto ai 2.480 del 31 dicembre 2017”.

Unico dato non negativo sono i detenuti che lavorano grazie alla "legge Smuraglia", che prevede misure di vantaggio per le cooperative sociali e le imprese che vogliano assumere detenuti in esecuzione penale all'interno degli istituti penitenziari. Sono 1.513, più o meno quanti nel 2017, ma di meno in termini percentuali.

Un quadro critico e allarmante. Perché il lavoro in carcere è un'arma potente di reinserimento sociale, a pena scontata. Ed è - osserva la stessa relazione - "strategicamente fondamentale, anche per contenere e gestire i disagi e le tensioni proprie della condizione detentiva". Le recenti proteste, anche violente, in vari penitenziari sono un campanello d'allarme. A confermare questo malessere il dato delle persone che si tolgono la vita dietro le sbarre. Il 2018 si è chiuso con un allarmante numero di suicidi, 67 secondo il sito Ristretti Orizzonti. È dal 2009 che non si registra un dato simile, il sintomo più grave di un malessere generale del sistema penitenziario italiano. Oltre ad aumentare i numeri assoluti, aumenta anche il tasso di suicidi ogni 10.000 detenuti, che si attesta al 11,4 calcolato sulla presenza media nel 2018. I numeri riportati dall'Amministrazione penitenziaria si discostano sempre leggermente rispetto ai numeri di Ristretti Orizzonti (61 sono i suicidi in carcere e 10,4 è il tasso ogni 10.000 detenuti), ma nonostante le discrepanze si conferma un aumento vertiginoso.


Il “dentro”, il “fuori” e come connetterli

Chi è in galera è per definizione distante. Distante dalle persone libere, distante dall'opinione pubblica, distante dagli affetti, distante dalla propria storia con cui ha avuto una cesura netta. Ma il carcere è distante anche fisicamente, la grande maggioranza delle quasi 190 carceri italiane è posta in posizione periferica rispetto al centro delle città che le ospitano. Se da un lato vi è un’ovvia connessione con i più elementari principi di sicurezza e di necessità di spazi ampi, non deve sfuggire una sottile e malcelata considerazione: “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Spesso capita di parlare con gli abitanti dei quartieri che ospitano gli istituti di pena che con fastidio accostano il nome delle posto dove vivono a quello della galera. Guai a voi se appellate il carcere di Torino come “Le Vallette”, anche se in gergo tutti lo chiamano così…

Allora come funziona? Come si abbatte, o per lo meno si accorcia la distanza tra il carcere e la comunità? Come fare dei posti della detenzione luoghi in cui esercitare la prossimità? Qualcuno ci ha provato, qualcuno ci sta provando fornendo opportunità di lavoro, portando all'interno degli istituti pezzi importanti delle istituzioni e della società civile.


Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri

I Sette giudici della Corte Costituzionale hanno incontrato i detenuti di sette Istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, il carcere minorile di Nisida, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni, Lecce sezione femminile. Per la prima volta dalla sua nascita, nel 1956, la Corte costituzionale giudice delle leggi e non delle persone, anche se le sue decisioni incidono profondamente nella vita delle persone decide di entrare in Carcere. Il Viaggio è iniziato a Rebibbia nell'autunno del 2018 con la partecipazione di 12 giudici e del Presidente Giorgio Lattanzi, alla presenza di 220 detenuti, pubblico e autorità istituzionali. Una diretta ha consentito di esserci anche a 11 mila detenuti di altre carceri d’Italia, per seguire un incontro assolutamente inedito, che non ha precedenti non solo nella storia della nostra Repubblica ma neppure nel mondo.

Da questa esperienza ne è nato un film con la regia di Fabio Cavalli. Il film è il racconto dell’incontro tra due umanità, entrambe chiuse dietro un muro e apparentemente agli antipodi: da un lato la legalità costituzionale, dall'altro lato l’illegalità, ma anche la marginalità sociale. Attraverso la fisicità, l’ascolto, il dialogo, il Viaggio diventa occasione di uno scambio reciproco di conoscenze, esperienze, e talvolta di emozioni. Ma è anche la metafora di un linguaggio che non conosce muri, e che anzi li attraversa, perché è il linguaggio (ritrovato e condiviso) della Costituzione, la casa di tutti, soprattutto di chi è più vulnerabile. L’incontro sarà destinato a cambiare lo sguardo dei protagonisti, non senza ricadute sulla loro quotidianità di donne e di uomini.


Il carcere è un pezzo di città, la campagna di Antigone

Nel mese di giugno l’Associazione Antigone, che da quindici anni si occupa di realizzare Rapporto sulla detenzione in Italia un puntuale e dettagliato lavoro che parte dalla visita presso le carceri italiane, ha lanciato una campagna che punta ad includere anche i sindaci nell'articolo 67 dell'ordinamento penitenziario, vale a dire tra quelle autorità cui la legge riconosce il diritto a visitare gli istituti di pena.

Per promuovere la campagna Antigone ha scritto ad alcuni sindaci italiani chiedendo la loro disponibilità a visitare insieme le carceri delle loro rispettive città. Sono diversi i primi cittadini ad aver risposto e nei giorni scorsi si sono tenute le prime visite a Livorno, con il sindaco Filippo Nogarin e a Torino con la sindaca Chiara Appendino, con i quali sono stati visitati rispettivamente gli istituti "Le Sughere" e "Lorusso-Cotugno".

Si legge nell'appello lanciato dall'associazione: “Quando carcere e territorio comunicano fra loro, quando esistono dei trasporti che non isolano gli istituti di pena ma che consentono a familiari e volontari di recarvisi facilmente, quando i cittadini si rendono conto che il carcere è un pezzo di città, quando sul territorio esistono servizi territoriali adeguati, aumentano le chances che la pena non sia solo un momento di esclusione. Il reinserimento abbatte la recidiva. Il reinserimento sociale è sicurezza”

Settanta anni fa Piero Calamandrei scriveva che bisogna aver visto. Bisogna aver visto per comprendere cosa significa la privazione della libertà e quale sia la composizione delle nostre carceri. Ma bisogna aver visto anche per trovare soluzioni concrete che diano effettività alla funzione che la Costituzione assegna alla pena. Il carcere non è un mondo a parte. Riflette, in tutto o in parte, la complessità e le problematiche di un territorio. “Molti Comuni sono già impegnati in attività meritorie. Il nostro obiettivo – conclude Antigone - è avvicinare il carcere alla società, contribuire alla sua non rimozione. Per questo è importante che i sindaci siano i primi a potersi interessare, e a poter essere messi nelle condizioni di farlo, a cosa avviene in questo loro pezzo di città”.


Economia carceraria. Oltre gli esperimenti, dare continuità

In carcere la libertà può assumere forme inaspettate. Può avere profumo di pane e biscotti o forma di cartamodelli e macchina da cucire. Può parlare la lingua del lavoro manuale o quella della creatività. Può raccontare storie di errori e sbagli, ma anche farsi portavoce di nuove narrazioni che parlino di dignità e rinascita.

L'economia carceraria non è così soltanto lavoro fine a se stesso, ma diventa un vero e proprio progetto sociale, capace di influire tanto sulla vita dei detenuti quanto su quella della società. E infatti crescono negli istituti di tutto il paese progetti di istruzione, formazione e lavoro: gocce nel mare ma fondamentali per trasformare il tempo della pena in tempo di rieducazione e dignità, così come previsto dalla nostra Costituzione.

Mettiamola così: da una parte ci sono buone leggi, il privato sociale che fa il possibile, le aziende che danno timidi segnali di avvicinamento; dall'altro l’evidenza dei numeri come abbiamo visto prima.

Sulla carta gli ostacoli sono superabili, per esempio mettendo insieme legge Smuraglia, telelavoro, la possibilità di creare progetti e prendere fondi dalla Cassa per le ammende e il regolamento di esecuzione penale, che prevede che l’amministrazione penitenziaria possa dare in comodato i propri spazi. Però il sistema, pur se in evoluzione, è fragile tanto nella attività produttiva quanto nella filiera della distribuzione quando si confronta con il sistema arranca.

Ed è proprio nell'ottica di mettere in evidenza e strutturare questo tipo di inizative che a giugno del 2018 è stato lanciato a Roma il Festival dell'Economia Carceraria, due giornate di promozione dell'economia carceraria, del suo valore e del contrasto alla recidiva. Le due giornate di manifestazione, promosse da Semi di Libertà Onlus, sono state inoltre l'occasione per avviare un discorso condiviso sul tema in tutta Italia, mettendo attorno ad un medesimo tavolo progetti e realtà attive in questo ambito con l'intenzione di creare una piattaforma online di comunicazione e di vendita dei prodotti realizzati nelle carceri italiane: buoni, etici e circolari.

Con base a Torino Freedhome rappresenta la voce delle tante realtà che ogni giorno dimostrano la forza riabilitativa del lavoro, portando valore, professionalità e voglia di fare nel sistema penitenziario del nostro Paese. Si tratta del primo store di economia carceraria in Italia.

Un laboratorio di idee e progetti utili a dare un segnale forte e dimostrare che questa soluzione è la chiave di volta per ripensare in modo efficace alle attività svolte nelle strutture detentive. Accessori, oggetti di design e prodotti enogastronomici realizzati all'interno degli istituti di pena di tutta Italia potranno così essere commercializzati in uno spazio espositivo che ne racconterà storia e qualità.

Queste attività sono strumenti attivi di integrazione che coinvolgono carcere e detenuti, per questo è stato creato un negozio che dia piena espressione a questo valore, facilitando la commercializzazione dei prodotti made in carcere dopo diverse esperienze temporanee e la partecipazione a fiere ed eventi di settore.

Si tratta di uno spazio espositivo situato nel pieno centro di fronte al Palazzo Comunale in Via Milano, in un luogo di grande passaggio destinato a diffondere originalità, qualità e denominazione degli articoli di cui Freedhome è garanzia. Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia i prodotti raccolti sono eccellenze in diversi settori e soprattutto ognuno di loro ha una sua storia da offrire e raccontare.


Alessandro Prandi

Pubblicato su Solidea - Luglio 2019

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