Augusto guarda la vigna con soddisfazione. “Anche quest’anno abbiamo fatto un buon lavoro, ci siamo dati da fare e il risultato sarà buono”. Siamo ad Alba a due passi dal Tanaro, tutto intorno colline tra le più conosciute al mondo, meta del turismo internazionale, riconosciute dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Barolo e Barbaresco non sono solo dei vini ma ambasciatori internazionali di questa terra bella e fortunata. Tutto intorno al vigneto di Augusto si erge un muro alto, spesso, grigio. Augusto non è un vigneron delle Langhe, la sua non è una di quelle facce che spesso appaiono sulle riviste patinate con a fianco bottiglie da qualche centinaio di euro. Augusto, ovviamente il nome è di fantasia, è un detenuto e il vigneto è dentro il carcere di Alba. Ma il vigneto è suo; suo e di una manciata di uomini che ci lavorano ogni giorno. Altri detenuti che come lui sono inseriti nel progetto Vale la Pena, che ogni anno coinvolge una decina di persone che, all’interno dell’istituto penitenziario, seguono un corso per ottenere la qualifica di operatore agricolo e coltivano i vitigni. Uve di nebbiolo, barbera, dolcetto e cortese vengono vinificate e poi imbottigliate dagli studenti dell’Istituto Enologico Umberto I° di Alba per una produzione annua di 1.400 bottiglie. Un ponte tra il dentro ed il fuori che contribuisce ad accorciare la distanza tra il carcere e la città. L’iniziativa vede coinvolti oltre la rinomata scuola enologica e la Casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba anche Syngenta, gruppo mondiale dell’Agribusiness che mette a disposizione i prodotti la protezione del vigneto e la fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, che assicura la formazione professionale - riconosciuta dalla Regione Piemonte - per operatori agricoli. Il processo è seguito dall’agronomo Giovanni Bertello, che da anni cura i progetti agricoli carcere albese e dallo staff degli educatori. Un libro fotografico, una mostra e un video descrivono Vale la Pena che dal 2006 ha contribuito anche a far sì che alcuni ragazzi, forti di questa esperienza, siano riusciti a farsi assumere da aziende agricole della zona un volta scontata la condanna. Tra le varie esperienze di lavoro carcerario, quella nel settore agricolo ha rivestito da sempre un ruolo particolare: si svolge all'aperto, offre l'opportunità di lavorare a contatto con l'ambiente e di seguire i cicli biologici, permette di "riappropriarsi" della funzione di cura e di supporto alla crescita. A far cornice a tutto ciò una legge relativamente nuova che incentiva l’Agricoltura sociale che consente di coniugare imprenditorialità e responsabilità sociale. Il rapporto annuale redatto dall’associazione Antigone racconta di carceri italiane sovraffollate, dove ci si ammala, ci si uccide e si muore con percentuali esorbitanti rispetto al cosiddetto mondo libero; il lavoro rappresenta forse l’unico antidoto a questo disastro. Da un lato disincentiva il ritorno a delinquere una volta usciti di prigione e dall’altro concretizza il concetto di restituzione alla società del danno causato. I detenuti che scontano la pena lavorando hanno una possibilità di gran lunga superiore di non tornare in carcere rispetto a quelli che non sono stati impegnati; il 65 % di coloro che vengono nuovamente arrestati appartiene al popolo degli “ex detenuti non lavoratori”; per contro “i detenuti lavoratori” sono recidivi per appena il 19%. In poche parole: il vero “svuota carceri” è il lavoro.
Alessandro Prandi
Articolo pubblicato sul'edizione torinese on-line di La Repubblica il giorno 11/9/2018.
Nell'immagine di Giovanni Bertello, il vigneto nel Carcere di Alba.
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