L’impegno di cittadinanza tra Codice del Terzo Settore e nuovo civismo
«La cittadinanza attiva è uno strumento potentissimo di trasformazione sociale perché, se noi cittadini non ci muoviamo non possiamo sperare che la politica o i Consigli di amministrazione delle aziende e delle imprese siano così solerti nel prendere iniziative per il bene della collettività.» Sono le parole che Leonardo Becchetti, professore ordinario di Economia politica all'Università Roma Tor Vergata, saggista ed attivista, usa nel presentare il suo ultimo lavoro “La rivoluzione della cittadinanza attiva” (EMI). Si tratta di un libro che, facendo leva sull'analisi delle patologie del sistema economico globalizzato e riflettendo sull'orizzonte di cura e di benvivere verso cui tendere, arriva a proporre una visione e una policy per un reale cambiamento verso la sostenibilità sociale, economica e ambientale. Sono parole dirette che non lasciano spazio a fraintendimenti. Da un lato esprimono l'urgenza di una presa di coscienza collettiva e dall’altro evidenziano diffidenza tanto verso il sistema dalla politica, stremato dall’inseguire un’opinione pubblica umorale, e quello della grande impresa.
Partendo dal contesto tracciato da Becchetti possiamo definire come sinonimi "volontariato" e "cittadinanza attiva"? La risposta è senza dubbio affermativa, ma ha bisogno di essere supportata da un paio di ragionamenti. Nel 2001, l'introduzione in Costituzione del terzo comma dell’articolo 118, ha previsto che lo Stato e le sue diramazioni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. Concetto recepito dal Codice del Terzo del settore del 2017 che al secondo comma dell'articolo 17 descrive il volontario come una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità in modo personale, spontaneo e gratuito, per fini di solidarietà. La parola "anche" fa tutta la differenza del mondo e introduce nel complessivo ambito delle iniziative senza fine di lucro anche la prestazione fornita dal singolo cittadino. Fino ad allora non era così, visto che la Legge quadro del volontariato del 1991 intendeva, come volontariato, ai fini delle previsioni di quella norma, l'attività prestata tramite l’organizzazione di appartenenza. Non c'era un divieto di svolgere attività al di fuori di un contesto associativo - che peraltro sarebbe stato contrario all'articolo 2 della Costituzione - ma di fatto depotenziava la portata dell'impegno civico "non organizzato". La Riforma del Terzo Settore equipara i "due volontariati" e, se fino ad ora le sue concrete applicazioni - decreti attuativi, linee guida e circolari - si sono concentrate esclusivamente sulle organizzazioni, c'è da presumere che prima o poi qualcuno si accorga di quell'"anche" e ne chiederà conto al legislatore in termini di riconoscimento giuridico, facilitazione, agevolazioni fiscali e soprattutto formazione. Sanata, per così dire, la "discriminazione" formale resterà da affrontare quella sostanziale. Un lavoro a cui approcciarsi con cautela e buonsenso al fine di scongiurare che un’effettiva opportunità di allargamento del fronte dei cittadini attivi non si trasformi nell’istituzionalizzazione di un informe massa di “lavoratori gratuiti” a servizio del sindaco o dell’assessore di turno. Il pericolo è quello di depotenziare le forme organizzate che nella loro autonomia rappresentano un presidio e una tutela dei diritti dei cittadini.
I Patti di collaborazione
Negli ultimi anni sono emersi molti esempi di impegno civico della cittadinanza fuori dalle organizzazioni. I più noti e diffusi sono i Patti di collaborazione; si tratta di accordi attraverso il quale uno o più cittadini attivi e un soggetto pubblico definiscono i termini della collaborazione per la cura di beni comuni materiali e immateriali. In particolare, il Patto individua il bene comune, gli obiettivi del Patto, l’interesse generale da tutelare, le capacità, le competenze, le risorse dei sottoscrittori - quindi anche dei soggetti pubblici - la durata del Patto e le responsabilità. Una delle principali peculiarità del Patto di collaborazione sta nella sua capacità di coinvolgere soggetti, anche singoli, generalmente distanti dalle tradizionali reti associative, interessati principalmente alle azioni di cura di un bene comune. L’alto tasso di informalità, che può ricomprendere anche gruppi informali, comitati, abitanti di un quartiere uniti solo dall’interesse nel promuovere la cura di un bene comune specifico, è la principale caratteristica che rende questo strumento diverso e più vantaggioso rispetto ad altri strumenti più noti a cui si affidano normalmente le pubbliche amministrazioni (affidamenti, concessioni, adozioni e simili). L'ultimo Rapporto sull'amministrazione condivisa dei Beni Comuni redatto da Labus (https://www.labsus.org) indaga il fenomeno da più punti di vista. L'indagine, svolta nel periodo compreso tra ottobre 2021 e gennaio 2022, è stata condotta sui 252 comuni che al 30 settembre 2021 risultavano aver adottato il regolamento per l’amministrazione condivisa, di questi solo 62 rendevano accessibili i testi dei patti sottoscritti e attivi nel 2021. Il documento analizza e mette a terra alcune delle considerazioni fatte in precedenza rispetto alla valorizzazione del volontariato svolto al di fuori delle organizzazioni, infatti si legge: «I patti sottoscritti da singoli cittadini e gruppi informali, inoltre, possono rappresentare una sfida per il mondo associativo e del terzo settore. La crisi dei corpi intermedi, infatti, investe anche le associazioni. I patti, grazie alla capacità di coinvolgere la cittadinanza fuori dai tradizionali circuiti associativi, possono costituire nuova linfa per rigenerare, attraverso il modello di amministrazione condivisa e la cura dei beni comuni, anche i modelli tradizionali di partecipazione.»
A fianco dell'affermarsi dei Patti di collaborazione stanno emergendo alcune realtà territoriali in cui i cittadini vengono chiamati ad attivarsi per il proprio Comune. È il caso di Buccinasco, in provincia di Milano dove da un paio d'anni il Comune è impegnato a non disperdere il patrimonio di attivazione civica nato durante l'emergenza sanitaria. È stato aggiornato il Regolamento sul volontariato introducendo un apposito Albo dei volontari finalizzato a raccogliere l'adesione dei singoli cittadini per realizzare insieme progetti condivisi - garantendo loro una copertura assicurativa – negli ambiti culturale, ricreativo e sportivo per il supporto agli eventi, nell’area civica per la tutela ambientale, nel presidio civico fuori dalle scuole e nei parchi, nell’area sociale per la prevenzione alle forme di disagio e di emarginazione sociale o la promozione della salute dei cittadini e nell’area imprenditoriale con interventi di consulenza per la creazione di nuove imprese e posti di lavoro.
Relazioni contro Pietre. Tra Civitas e Urbs
Cercando di andare oltre ad mero approccio riduzionista, che si nutre di adeguamenti statutari, schemi contabili e regimi fiscali, è proprio la Riforma del Terzo settore a dare il senso a questa lettura. Come detto in precedenza, la Riforma in aderenza al dettato costituzionale, riafferma il riconoscimento del valore e la funzione sociale degli enti del Terzo settore, dell'associazionismo, dell’attività di volontariato - sganciandola dalla partecipazione all’esclusività dell’appartenenza ad un ente - per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, collegandolo al perseguimento di una o più attività di interesse generale (distinte e dettagliate in ventisei casistiche) ossia che si impegnino nella cura di un bene comune, sia esso materiale o immateriale.
È ancora presto per riuscire a dare un giudizio sociologico sulla Riforma, ovvero per capire appieno quale sarà l’impatto che, i non indifferenti adempimenti richiesti, avranno sull’universo mondo dell’associazionismo del nostro paese. Una riflessione, basata più sull’osservazione quotidiana del fenomeno piuttosto che sulla lettura (dei, peraltro, piuttosto acerbi) delle iscrizioni al Registro Unico del Terzo Settore, porterebbe a dire che la Riforma tenderebbe a mettere in difficoltà alcune tipologia di realtà, prettamente associative, che pongono nella cura delle relazioni di prossimità la propria ragion d’essere in intima connessione ai luoghi in cui vivono. Ad esempio: è ormai affermata la presenza su territorio nazionale di realtà cosiddette delle “Comunità migranti”; si tratta di organizzazioni che operano in forma associativa, in modo particolare nelle aree metropolitane, per favorire l’integrazione delle persone straniere fornendo tutta una serie di servizi tenendo vive le culture di origine, agevolando il collegamento con le istituzioni e i servizi pubblici. Il rischio è che tali realtà “arrivino lunghe”, per così dire, all’appuntamento con la Riforma ritardando o evitando la loro entrata nel novero degli Enti di Terzo Settore a discapito sia delle proprie attività sia delle persone di cui si occupano. Occorrerebbe da questo punto di vista una presa di coscienza del tema e di agire al fine di sensibilizzare e accompagnare queste di organizzazioni, magari prevedendo delle attività di mediazione culturale. In molti lo stanno facendo, ma forse al momento tale sforzo non è sufficiente.
Un’esperienza polare rispetto alla precedente è quella delle Cooperative di comunità. Qui il concetto di cittadinanza attiva raggiunge una delle sue massime espressioni. Si tratta di un modello di innovazione sociale dove i cittadini sono produttori e fruitori di beni e servizi, è un modello che crea sinergia e coesione in una comunità, mettendo a sistema le attività di singoli cittadini, imprese, associazioni e istituzioni rispondendo così ad esigenze plurime di mutualità. Obiettivo esplicito è quello di produrre vantaggi a favore di un luogo al quale i promotori appartengono o che eleggono come proprio.
Una riflessione sui luoghi - siano essi città, paesi o porzioni di essi - non può prescindere da una ragionamento politico sulla comunità e sui rapporti tra i suoi cittadini. Pur nella diversità, la città nel mondo antico – sia greco che romano - è soprattutto il progetto di una identità ricercata tra pólis e polítes, città e cittadino. Città, dunque, va intesa non tanto come luogo fisico, delimitato da mura e riconoscibile nella specificità dei suoi spazi, quanto, prima di tutto, come comunità vivente. Questa, forse, è una delle suggestioni più interessanti che ci offre la radice etimologica della parola “città”. Essa deriva dal latino civitas, propriamente l’insieme dei suoi cives, e implica il riconoscimento dello statuto giuridico dell’essere cittadino. Altro è il significato di urbs, lo spazio in cui si insediano gli edifici, o di oppidum, la zona delineata da mura e fortificazioni, che implica l’idea di un dentro e di un fuori, la demarcazione di uno spazio che è esclusione del fuori e protezione del dentro. La dicotomia è chiara. Già Cicerone aveva distinto tra la città delle pietre - urbs - con la propria fisicità e quella della anime - civitas - se vogliamo degli spiriti che, al fine del nostro ragionamento, potremo dire delle relazioni.
«Mi piace immaginare - dice Roberta Ioli studiosa del pensiero antico e autrice di vari contributi sul mondo classico - per il termine greco pólis, forzando leggermente l’etimologia, la stessa radice di polýs (“molto”), a indicare l’insieme dei cittadini come “molteplicità” (polloí) unificata, comunità che abita lo spazio condiviso.»
Proviamo a mettere collegare i due concetti: i luoghi si definiscono, anche, attraverso la pluralità delle relazioni tra le persone che le vivono.
La “ri-appropriazione” di un bene o di più beni - tangibili o intangibili - funziona quando la comunità se ne assume la responsabilità fino al punto di considerare il donare tempo e risorse al progetto come modo per prendervi parte ed esserne protagonista; si crea così un nesso diretto e non causale tra le iniziative di volontariato, sia esso più o meno organizzato, inteso come cura delle relazioni che rendono vivo un luogo.
Associazioni e cittadini attivi operano con l’intento di perseguire l’interesse generale e costruire il bene comune. Sono antenne nei territori, carpiscono i bisogni sociali emergenti e cercano risposte spesso creative, a volte visionarie, ma comunque concrete per elevare la propria comunità di riferimento.
Alessandro Prandi
Pubblicato su Solidea, luglio 2022
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